Quando la crisi dell’impresa sfocia nello stato d’insolvenza, ossia nell’incapacità non momentanea di pagare...
In questo periodo, anche tra i non addetti ai lavori, si parla molto della procedura di concordato preventivo. Vuole darci un quadro delle procedure giudiziarie che si possono aprire quando l’impresa è in crisi?
Quando la crisi dell’impresa sfocia nello stato d’insolvenza, ossia nell’incapacità non momentanea di pagare regolarmente i propri debiti, su iniziativa di un creditore o anche del pubblico ministero il tribunale dichiara il fallimento. L’imprenditore è quindi spossessato dell’azienda o comunque dei beni venendo nominato il curatore fallimentare che provvede alla loro liquidazione, all’eventuale esercizio delle azioni revocatorie e delle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali ed alla segnalazione degli eventuali fatti reato alla procura della repubblica.
Per evitare il fallimento l’imprenditore, sia quando si trova in una situazione di crisi non ancora diventata insolvenza sia quando vi è già insolvenza, può utilizzare lo strumento del concordato preventivo o lo strumento degli accordi di ristrutturazione. Con il primo l’imprenditore propone normalmente ai creditori il soddisfacimento dei crediti in misura ridotta ma in teoria potrebbe anche proporre solo la modificazione dei termini di pagamento. La proposta può prevedere che tutto l’attivo dell’impresa sia ceduto ai creditori con nomina da parte del tribunale di un liquidatore giudiziale per realizzare i beni e ripartire il ricavato tra i creditori nei termini indicati. Può però anche prevedere che l’impresa continui ad operare pagando i creditori nella percentuale prospettata con i risultati dell’attività oppure che il pagamento sia garantito da terzi. Ciò che caratterizza il concordato preventivo è che la proposta è sottoposta al voto dei creditori e se è raggiunta l’adesione, anche nella forma del silenzio assenso, di creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti, ossia il 50% piu uno, gli effetti, a seguito dell’omologa da parte del tribunale, si producono nei confronti della totalità dei creditori, anche di quelli dissenzienti.
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, che possono prevedere sia la falcidia dei crediti sia la sola modifica dei termini del pagamento, invece producono effetto solo nei confronti dei creditori che vi hanno aderito. La legge prevede che, a seguito dell’omologazione da parte del tribunale, che presuppone l’adesione di creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti, i creditori estranei all’accordo devono essere pagati integralmente entro centoventi giorni e, inoltre, che tutti i pagamenti e le altre operazioni posto in essere in esecuzione del piano collegato all’accordo, anche nell’ipotesi di successivo fallimento, non possono essere revocate e non possono dar luogo a responsabilità penale né per aggravamento del dissesto né per bancarotta pregerenziale.
Il valore aggiunto dell’accordo di ristrutturazione omologato rispetto ad un normale accordo con i creditori è proprio quello di eliminare il rischio di revocatoria e il rischio penale per bancarotta nel caso in cui le previsioni del piano non dovessero avverarsi e si arrivasse quindi successivamente alla dichiarazione di fallimento.
Rispetto al concordato preventivo il pregio dell’accordo di ristrutturazione è rappresentato da un canto dal fatto che normalmente non vi sono opposizioni alla sua omologazione posto che nessun creditore subisce un qualche effetto contro la sua volontà e, dall’altro canto, che in presenza di un accordo omologato non vi è alcun spazio, anche se vi sono stati in precedenza atti distrazione, per la contestazione del reato di bancarotta, mentre nel caso di concordato un certo rischio, per quanto nei fatti ridotto, persiste, stante la previsione dell’art.236 della Legge Fallimentare.
In concreto come vengono utilizzati questi strumenti?
Quello degli accordi di ristrutturazione è stato un istituto finora utilizzato quasi esclusivamente da imprese di grandi dimensioni. Forse questo è dipeso da una non adeguata conoscenza da parte degli imprenditori e da parte dei professionisti ma è probabile che ciò sia dipeso anzitutto dal fatto che esso comunque di norma presuppone il sostegno forte delle banche sia per raggiungere la soglia di adesione del 60% dei crediti sia per disporre della finanza occorrente per pagare immediatamente tutti i creditori non aderenti assicurando nel contempo la continuità dell’attività. Rispetto a queste imprese di medio grande dimensioni vi è stata evidentemente maggiore disponibilità da parte del sistema bancario di farsi carico di operazioni salvataggio anche in ragione dell’entità delle esposizioni, tali, in caso di crack, di creare problemi anche alle più grandi banche.
Quasi tutti gli accordi di ristrutturazione omologati dal Tribunale di Milano hanno riguardato esposizioni debitorie nell’ordine, per ciascuna impresa, di varie centinaia di milioni di euro e in alcuni casi superiori al miliardo di euro fino al caso, noto perché la società era la proprietaria delle più grandi aree dismesse nell’hinterland milanese, di un’esposizione debitoria di ca. quattro miliardi di euro. Peraltro la ristrutturazione dei debiti, proprio in ragione del livello di coinvolgimento degli istituti di credito, è stata spesso accompagnata dal cambio delle compagini amministrative con la nomina ai vertici di uomini di fiducia del sistema bancario e talvolta anche da meccanismi di sostanziale conversione, almeno in prospettiva per il caso di esito negativo del piano, dei crediti delle banche in capitale o comunque di soddisfazione delle banche nei limiti del risultato economico raggiunto con le operazioni previste, per cui in alcuni casi si è profilato, sotto lo schermo giuridico dell’accordo di ristrutturazione, un commissariamento di fatto dell’impresa da parte delle banche se non una gestione “quasi diretta” da parte del sistema bancario delle operazioni programmate, soprattutto per quanto riguarda la valorizzazione degli asset immobiliari.
E’ indubbio però che, contrariamente a quanto accaduto fino ad ora, agli accordi di ristrutturazione potrebbero utilmente ricorrere anche le normali imprese a condizione però che non si attenda un eccessivo aggravamento della situazione di crisi.
I ricorsi per ammissione a concordato preventivo hanno avuto invece una crescita esponenziale a seguito della modifica della disciplina con riforma del 2006 e soprattutto dopo l’introduzione nel 2012 del c.d. ricorso per concordato in bianco che consente all’impresa debitrice di bloccare tutti i pagamenti, ogni azione esecutiva per il recupero dei crediti e le iscrizioni ipotecarie, per un arco temporale che può arrivare ai 180 giorni, sulla base della sola dichiarazione di voler formulare una proposta di concordato preventivo.
Perchè in questo periodo vi sono state tante critiche rispetto al funzionamento del concordato preventivo?
Certamente si sono verificati molti casi di abuso del c.d. concordato in bianco. Il blocco automatico di tutti i pagamenti sulla base della sola dichiarazione del debitore, che alla scadenza del termine può poi anche non proporre alcun concordato, ha reso possibile un uso strumentale dell’istituto solo per guadagnare tempo senza alcuna seria volontà di sottoporre un piano ai creditori.
Ma le perplessità hanno investito alcuni aspetti della stessa disciplina del concordato come uscita dalla riforma del 2006.
Fino ad allora la proposta di concordato preventivo doveva prevedere il pagamento integrale dei creditori privilegiati e il pagamento dei creditori chirografari nella misura di almeno il 40% . Per l’approvazione della proposta occorreva oltre alla maggioranza dei crediti anche la maggioranza di teste e il tribunale omologava il concordato solo se l’imprenditore era meritevole e se vi era certezza del pagamento delle percentuali previste dalla legge per cui venivano spesso richieste, in caso di concordato per cessione dei beni, delle garanzie integrative.
Dopo la riforma possono essere falcidiati anche i crediti muniti di privilegio generale come quelli di lavoratori, erario, artigiani; non è più prevista una percentuale minima per cui si può proporre anche il pagamento dei crediti nella misura ad esempio del 2%, per l’approvazione non è più richiesta la maggioranza di teste, per cui il concordato può essere omologato anche con il voto favorevole di un solo creditore, ed è venuto meno ogni vaglio di meritevolezza. Questa impostazione, decisamente peggiorativa pe la tutela dei creditori, era stata giustificato in nome dell’esigenza di privilegiare la conservazione dell’attività d’impresa.
Nei fatti però è accaduto che i concordati proposti per il risanamento dell’impresa sono stati pochissimi mentre la stragrande maggioranza, più dell’80%, hanno riguardato imprese che avevano già cessato ogni attività e sono consistiti nella semplice cessione dei beni ai creditori. In circa metà dei concordati la percentuale di pagamento offerta ai creditori chirografari è stata tra l’1% e il 20% . Ma il risultato in fase di esecuzione è stato ben peggiore: presso il Tribunale di Milano, per fare un esempio, in circa il 40% dei concordati ammessi nel 2008 a cinque anni di distanza i creditori chirografari (ossia la stragrande maggioranza) non hanno ricevuto un euro, un 20% ha ricevuto tra l’1% e il 10% e un 12% tra il 10% e il 20%. Quindi nel Tribunale più importante d’Italia, almeno per quanto riguarda l’economia, i concordati preventivi a cinque anni dall’omologa non hanno assicurato al 60% dei normali creditori alcun pagamento o hanno portato pagamenti in misura inferiore al 10%. Questa situazione ha messo in crisi molte imprese creditrici con effetti a catena.
Per quale ragione i risultati sono stati così negativi? E quali possono essere i rimedi?
Il Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università di Bologna ha compiuto alcuni mesi fa una ricerca su un campione di 830 procedure di concordato selezionate in tutta Italia. Sulla base dell’analisi dei bilanci del quinquennio precedente, applicando la formula dell’economista americano Altman, è emerso che l’87% già tre anni prima di chiedere l’ammissione alla procedura si trovava in situazione di alta probabilità di fallimento ossia, sostanzialmente, in situazione d’insolvenza.
La ragione quindi è che alla procedura di concordato si arriva troppo tardi dopo che si è mascherato per molto tempo la situazione d’insolvenza, per cui quando si presenta il ricorso il disavanzo è enorme. D’altro canto questa è anche la ragione per cui nel 90% dei fallimenti i creditori chirografari non ricevono alcun pagamento.
Tra queste imprese che arrivano al concordato o al fallimento in queste condizioni alcune fanno capo ad imprenditori che, investiti dalla crisi del settore d’appartenenza, fino all’ultimo si sono illusi di riuscire a uscirne senza ricorrere a strumenti come gli accordi di ristrutturazione o il concordato preventivo per cui, cercando di mascherare la loro condizione finanziaria, per anni si sono trascinati via tamponando la situazione con i creditori più forti o più aggressivi, con il risultato finale di proporre concordati prevedenti percentuali di pagamento minime e spesso ridicole che i creditori poi accettano solo per mancanza di alternative più vantaggiose. Ma una parte rilevante di questi concordati riguarda imprese gestite ab origine in modo spregiudicato, mettendo in conto fin dall’inizio il dissesto con l’intenzione di ripartire successivamente con una nuova società e di utilizzare lo strumento del concordato preventivo per liberarsi dei debiti, pagando percentuali molto spesso irrisorie, eliminare il rischio dell’azione di responsabilità e nei fatti anche il rischio penale per bancarotta, connessi alla dichiarazione di fallimento, e spesso anche per trasferire l’azienda senza debiti in capo alla nuova società.
Questo fenomeno determina un danno all’imprenditoria seria non solo per lo svuotamento dei crediti ma anche per l’alterazione delle regole della concorrenza. Un’impresa che per anni opera senza pagare l’IVA e i contributi previdenziali e nell’ultimo anno di attività neppure i fornitori, con l’obbiettivo di assicurare la continuità dell’attività nel tempo della stessa trasferendo poi, in vario modo, l’avviamento, e spesso anche le merci e le attrezzature, in capo ad un soggetto formalmente diverso, può buttare fuori dal mercato o comunque mettere in gravi difficoltà le imprese concorrenti.
Quanto ai rimedi una prima correzione proposta è quella di reintrodurre per legge una percentuale minima di soddisfacimento dei crediti. Confindustria ha proposto il 25-30%. Questa soluzione da sola però non mi pare sufficiente per aggredire il problema, perché se si consente di posticipare l’emersione del dissesto per alcuni anni il patrimonio risulterà comunque consumato per cui l’unica conseguenza dello sbarramento legale sarà la diminuzione dei concordati preventivi e l’aumento dei fallimenti senza alcun incremento del soddisfacimento dei creditori, salvo forse l’effetto dello stimolo per una parte delle imprese interessate a ricorrere prima allo strumento concordatario.
Ritengo che la scelta fondamentale che si deve compiere è quello d’introdurre in Italia lo strumento delle misure d’allerta sulla base dell’esperienza di altri paesi ed in particolare di quella francese. Era già stato proposto dalla Commissione per la Riforma Fallimentare istituita nel 2003 ma non n’è fatto nulla. In Francia gli indici d’insolvenza sono costantemente monitorati e quando emergono scatta la segnalazione al tribunale commerciale che concede un termine all’imprenditore per presentare un piano di risanamento anche nella forma del concordato preventivo procedendosi altrimenti all’apertura d’ufficio della procedura concorsuale.
Ma a queste considerazioni non si potrebbe obbiettare che la proposta di concordato è comunque sottoposta al voto dei creditori e che quindi i creditori, se si ritengono penalizzati, potrebbero votare contro?
In primo luogo è da osservare che con l’abolizione del quorum di teste a favore della sola maggioranza di ammontare dei crediti i normali fornitori contano molto meno. I creditori più forti come le banche, che sono normalmente titolari dei crediti di maggiore importo, spesso votano a favore della proposta, pur a fronte di offerte di pagamento in percentuale minima, perche, trattandosi di soggetti più forti dei normali fornitori, hanno ottenuto originariamente delle garanzie esterne, come ipoteche su beni di terzi o fideiussioni degli amministratori o di altre società del gruppo, che possono escutere e che non sono intaccate dal concordato, o comunque perche possono valutare la specifica vicenda in un quadro più ampio che comprende l’intero gruppo di cui fa parte la debitrice o l’operatività futura di una nuova società a cui le attività vengono trasferite, concordando quindi in quell’ambito, fuori dal concordato, soluzione compensative. Quindi i creditori dissenzienti si trovano spesso a dover subire gli effetti di concordati approvati da altri creditori che possono, a differenza di loro, gestire il recupero del credito su più piani.
Ma il vero nodo della questione è che se l’insolvenza è fatta emergere due o tre anni dopo rispetto a quando ha iniziato a manifestarsi, il dissesto è diventato nel frattempo così grave che in ogni caso, indipendentemente dal tipo di procedura, il soddisfacimento possibile per i normali creditori non può che essere inesistente o comunque minimo. Questo dato è poi accentuato dal fatto che in questo lasso di tempo i creditori più informati e più forti possono sfruttare il vantaggio informativo per contrattare delle soluzioni, come rientri e concessioni di garanzie, favorevoli a se’ che riducono le disponibilità per gli altri creditori. Si parla al riguardo, soprattutto con riferimento alla posizione delle banche all’interno del ceto creditorio in ragione della conoscenza quasi dall’interno della situazione finanziaria dell’impresa di cui esse dispongono, di asimmetrie informative. Il sistema delle misure d’allerta per l’emersione tempestiva dell’insolvenza è l’unico strumento per una risposta organica ed efficace a questi problemi nella prospettiva sia della tutela della generalità dei creditori sia della salvaguardia del valore dell’impresa debitrice.
Sono molte le procedure concorsuali avanti al Tribunale di Milano che hanno interessato imprese di costruzioni?
Senza poter dare un dato statistico preciso posso rispondere che la crescita in questi ultimi anni è stata molto rilevante, essendo arrivate recentemente al fallimento o al concordato preventivo anche imprese storiche.
Questo aumento dei dissesti è ovviamente anzitutto la conseguenza della grave crisi del settore immobiliare ed alla luce anche dell’entità, in alcuni casi veramente impressionante, degli immobili costruiti e rimasti invenduti, al punto che vi sono fallimenti che vendono appartamenti in immobili di recentissima realizzazione ad un terzo del prezzo originario di mercato, sorge spontaneo l’interrogativo se, a prescindere dalla crisi, non si sia comunque costruito troppo rispetto alla domanda. D’altro canto mi ha colpito in questi giorni la notizia che in Spagna si sta pensando, almeno in alcune aree più interessante dal fenomeno dell’espansione edilizia dell’ultimo decennio e della bolla immobiliare, a politiche pubbliche di abbattimento del costruito.
Un’altra osservazione che posso fare alla luce dell’esperienza milanese è che una parte rilevante delle imprese che sono finite in stato di dissesto hanno operato fin dall’inizio in condizioni di manifesta sottocapitalizzazione per cui alla prima seria criticità finanziaria non sono state in grado di reggere. Mi chiedo se in un settore così delicato, in cui si fa ancora ampio ricorso al capitale fornito dai risparmiatori privati sotto forma di versamento di anticipi sul prezzo a fronte di preliminari di vendita o di vendita di cosa futura, questo sia accettabile, tanto più che la normativa sulla tutela degli acquirenti, incentrata sul rilascio delle fideiussioni, è rimasta troppo spesso, come abbiamo potuto purtroppo noi verificare, lettera morta, con il conseguente ripetersi di drammi che pensavamo ormai relegati al passato dei tristemente noti crack immobiliari. In altri paesi non è consentito utilizzare i versamenti degli acquirenti e dei promissari acquirenti come fonte di finanziamento dell’impresa di costruzione, dovendo il costruttore operare con i capitali forniti dalla banca e con i capitali propri. Le somme versate dagli acquirenti rimangono invece vincolate su un conto che è rigorosamente distinto dal patrimonio dell’impresa di costruzione e a tutela di queste regole è dettata una specifica disciplina penale. La soluzione italiana della fideiussione nei fatti si è rivelata inadeguata perché ampiamente elusa senza alcuna reale sanzione. Quando si verifica il dissesto la totalità o la quasi totalità dell’attivo è destinato alla banca con credito ipotecario. Anche con riferimento a questo diverso profilo della crisi d’impresa, riguardante specificamente il settore immobiliare, occorrerebbe un nuovo intervento del legislatore.
Roberto Fontana - Giudice alla sezione fallimentare del Tribunale di Milano